Cosa ha da dire la storia di un uomo, il religioso dei Servi dei Poveri Francesco Spoto ucciso nel 1964 in Congo e – per via della sua testimonianza – beatificato dalla Chiesa cattolica nel 2007, agli uomini e ai cristiani del nostro tempo? È questa la domanda che la famiglia cusmaniana si è posta nella XXVII giornata di riflessione e preghiera sulle orme di Giacomo Cusmano che si è svolta di recente a Palermo. Un’occasione, quest’ultima, che mi ha consentito di tornare a riflettere sulla santità intesa, come sostiene il Concilio Vaticano II, come chiamata rivolta a tutti.
Per i credenti il punto di partenza risiede in quella parola di Dio, rivelata nella Bibbia, nella quale l’invito alla santità si declina ora nell’ascolto della volontà del Dio dei padri e d’Israele ora nel porsi alla sequela di Cristo Gesù. La vita del maestro di Nazareth non è stata affatto mediocre, annacquata, ininfluente. Tutt’altro. L’esistenza di Gesù ci rimanda ad una vita integralmente vissuta e realizzata, sin nelle sue intime corde, per via dell’offerta di sé agli uomini. Se il santo è colui che imita il maestro sino a divenirgli “somigliante” non siamo autorizzati ad intendere la sua vita come limitata o mancante di alcunché. Difatti l’accoglienza nella storia dei singoli del dono della santità da parte di Dio si tramuta in una vita piena, totale, compiuta. È chiaro che, come testimonia la vicenda del martire Spoto, la chiamata alla santità non prevede percorsi privilegiati o corsie preferenziali. Così non conta nulla aver scelto una determinata via – religiosa, familiare, ministeriale – se questa non diviene mezzo per divenire alter Christus.
I santi di ogni epoca, la storia della chiesa lo mostra chiaramente, non si sono ritenuti eroi solitari capaci – tramite i loro superpoteri – di risolvere i drammi dell’umanità. Invece coloro che in seguito sono stati ritenuti modello di vita cristiana, hanno vissuto all’interno di un popolo fatto di testimoni dal quale prendere esempio. Si tratta di quei «santi della porta accanto» di cui ci parla papa Francesco nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate del 2018. Ciò ci rende consapevoli del fatto che nessuno si salva da solo poiché, come annotò Martin Lutero in uno scritto spirituale, nella comunità dei credenti quando qualcuno cade in errore per via del peccato qualcun altro al contempo prega per lui. Da ciò si evince un esempio di «santità normale» che secondo Bergoglio rende visibile il «volto più bello della chiesa». Francesco è anche convinto del fatto che ogni credente ha la sua via per far emergere il meglio di se stesso al fine di accogliere la santità di Dio nella propria esistenza. Tuttavia questa multiforme possibilità conduce al medesimo esito: annunciare il Regno di Dio e la sua giustizia. In questa visione, il martirio di padre Spoto ci dice che il santo non è affatto una persona vanitosa, eccentrica, egocentrica bensì è un perseguitato perché ha messo la propria vita a disposizione degli altri.
Da quanto emerso traiamo una logica del dono tipica delle figure di santità costituita da alcune coordinate essenziali. Intanto la responsabilità. Avere responsabilità verso l’altro significa da un lato riconoscere quello che noi possiamo realmente fare, dall’altro vuol dire affermare i nostri limiti e non convincersi di poter risolvere tutti i problemi sociali, politici, economici, spirituali e personali degli uomini che incontriamo. La nostra azione responsabile tesa verso l’altro ha come finalità la giustizia, il bene comune, il riconoscimento e la tutela della dignità umana. Qualsiasi processo, inoltre, abbisogna tanto di pazienza – non possiamo lasciarci trascinare dal vortice del “tutto e subito” che contraddistingue il nostro tempo se desideriamo avviare processi che durino – quanto di perdono. Soltanto attraverso la concessione di quest’ultimo, infatti, è possibile dare nuovo senso al passato per poter continuare a generare il futuro. Infine l’assenza. Qualche tempo prima della sua morte Francesco Spoto rassegnò le dimissioni da superiore generale dei Servi dei poveri al fine di rendersi libero e disponibile ad ogni esito congiunto alla missione in Congo che aveva intrapreso. In tal modo l’assenza certifica una presenza ricca e liberante in quanto permette all’altro di emergere perché qualcuno gli ha fatto, sul serio, spazio. Credo che continuare a riflettere sul martirio di padre Spoto abbia un significato rilevante per i cristiani dei nostri giorni dal momento che ci testimonia un’umanità spoglia di qualsiasi cosa: orpelli, carriere, titoli, ricchezze, possedimenti. Questa modalità autentica di vivere l’umanità è allo stesso tempo una via integrale volta ad accogliere il dono della santità di Dio.
Rocco Gumina