Benvenuto nel sito ufficiale dei Missionari Servi dei Poveri

Al Padre Daniele da Bassano

Confessore di SS. Leone XIII

Al Rev.mo P. Daniele da Bassano

Confessore di SS. Leone XIII

Palermo, 19 maggio 1882

Rev.mo Padre,

Sia Gesù amato da tutti i cuori.

Di seguito alla sua consolante ed affettuosa lettera del 12 volgente, scrivo la presente, omettendo per esser breve e discreto, quello che sarebbe mio desiderio di umiliare a Sua Santità per semplice mio conforto.

Chiamato all’ultima ora, ed elevato per volere di Dio al Sacerdozio nel dicembre del 1860, sentii nell’anima mia il desiderio di consacrarmi ai Poverelli, facendo mie le loro miserie, per rilevarli dalle terribili loro sofferenze avvicinandoli a Dio.

Il Rev.mo Can. Turano, oggi vescovo di Agrigento, mise per sette anni alle prove questo mio desiderio, e finalmente nel febbraio del 1867 consentì a farmi presentare a S. E. Rev.ma Mons. Arcivescovo Naselli, di felice ricordanza, una supplica per domandargli la benedizione di ogni opera che io vagheggiavo a sollievo dei Poveri.

Essa consisteva nel raccogliere, a pro di essi dalle buone famiglie un boccone, da prelevarsi dal pasto giornaliero, e gli oggetti più inutili della casa.

Ottenuta l’approvazione dell’Ordinario, ottimi sacerdoti e laici cooperarono meco, e l’opera ebbe un prospero sviluppo, come rileverà dalla pastorale che le spedisco insieme alla presente.

Chiamato dal Questore di quell’epoca, il Signori mi diede grazia di riuscire a provare l’innocenza dei nostri princìpi, e fui dallo stesso obbligato a presentare il progetto al Governo, per ottenere casa ed aiuti al migliore sviluppo dell’Opera.

Fu allora che privatamente scrissi al S. Padre Pio IX, di s. memoria, per sapere come regolarmi, il quale, dopo avere prese le debite informazioni dall’Ordinario, rispose, inviando il Decreto ed il Breve che in copia le compiego.

A questa spinta spontaneamente data dal Sommo Pontefice, Monsignor Arcivescovo fece succedere l’istituzione canonica dell’Opera. Le faccio avere copia del decreto unitamente a quello di affiliazione dell’Istituzione di S. Vincenzo de’ Paoli, firmato dal Generale Etienne. Dell’affiliazione all’Istituzione di S. Francesco, la S. V. Rev.ma conosce tutto.

Il mio desiderio intanto era di vedere sorgere una Comunità Religiosa, la quale, informandosi alla carità di N. S. G. C, che fece sue tutte le miserie della umanità, tutta si dedicasse al servizio dei Poveri nello scopo finale di avviarli dagli stenti di questa vita ai gaudi del cielo.

I membri di tale Comunità, che per essere ammessi devono possedere non meno di mezza lira al giorno vitalizia, spogliandosi di tutto per darlo ai Poveri, devono riguardare come somma fortuna servire G. C. medesimo nel Povero, lavorare, mendicare per raccogliere il bisognevole, posporsi ai Poveri in tutto, preferendo mancare essi piuttosto che i Poveri delle cose più necessarie alla vita.

Questo tenore di vita era creduto impossibile da chi dirigeva la mia coscienza, e quindi fui costretto dall’ubbidienza a servirmi di braccia prezzolate per non arrestare lo sviluppo dell’Opera, che si vedeva tanto utile in quei momenti, nei quali, per l’accaduta insurrezione popolare (1866) e per lo scioglimento delle corporazioni religiose, molte famiglie languivano e numerosi morti per fame straziavano l’animo di tutti.

Io soffrii molto a servirmi di persone mercenarie o di altri, che, volenterosi a cooperare, pare non avevano il desiderio di unirsi in Comunità per praticare la vita da me desiderata; ma pur tuttavia era questo il volere dei Superiori, era imperioso il bisogno del momento, mancavano le vocazioni, né potevo io suscitarle.

Mi dovetti uniformare, e sotto l’egida di un Consiglio Direttivo, creato da Monsignore Arcivescovo Naselli, si organizzarono le collette, si crearono uffici di Contabilità, Archivio, Segreteria, Cronaca, e l’Associazione cominciò a pigliare proporzioni interessanti.

Ma da quel punto un profondo dolore cominciò ad attristare l’anima mia, perché la coscienza mi avvertiva che Iddio per la mia indegnità non faceva sorgere la Comunità desiderata e sopra tutto mi contristava il pensiero che io avessi cominciato l’Opera con desideri che non erano sola e pura carità e avessi adoperato, per ottenere la benedizione del mio Direttore, una tal quale astuzia o umana destrezza. Talché sentivo una ardente brama di volare ai piedi del S. Padre Pio IX, accusarmi a Lui delle gravi iniquità di tutta la mia vita, manifestare i pravi desideri del mio cuore, che mi pareva guastassero in me lo spirito di carità, per essere accertato, se quel desiderio che io sentivo era da Dio o dal demonio, e per risolvere se dovevo o no continuare nella via intrapresa.

In tali strette di cuore mi rivolgevo al confessore e ne ero sempre bistrattato; mi rivolsi al Rev.mo. Can. Guarino, già consigliere dell’Opera nostra, e ad altri ottimi sacerdoti, ma non potei mai ottenere la serenità dell’anima mia, sicché più volte fui risoluto di abbandonare ogni cosa, fuggire nella solitudine a piangere per tutta la vita i miei orridi trascorsi.

Tuttavia l’Opera progrediva; più di 20 sacerdoti dividevano con me le fatiche della colletta e della distribuzione degli alimenti ai Poveri a domicilio, un buon numero di laici di ambo i sessi vi lavoravano altresì, ed anche in case divise, prese ad affitto, il Consiglio mi aveva autorizzato a riunire ragazzi d’ambo i sessi, perché più proficua alle loro anime si rendesse quella elemosina, che con tanto stento si raccoglieva, porgendola loro insieme alla parola di Dio, con l’istruzione catechistica e con l’insegnamento delle lettera e delle arti.

Passarono circa quattro anni in questo lieto stato, e non vi era povero a nostra conoscenza che non ricevesse i benèfici aiuti dell’Opera, anzi arrivava a muffirsi il pane e la pasta per l’abbondanza delle elemosine, ed era assai bello vedere come per questi aiuti materiali si avvicinassero le anime a Dio, togliendosi dal disordine ed avvicinandosi ai Sacramenti.

Fu assai più consolante l’aiuto corporale e spirituale dato ai Poveri nell’epoca io cui il morbo asiatico mieteva a migliaia le vittime, e ricolmava la città dello squallore che portavano ad un tempo la miseria e la morte!

Senonché, essendo stato poco dopo promosso al vescovato di Agrigento il Can. Turano, Vice Presidente del Consiglio direttiva dell’Opera ed in pari tempo elevato alla cattedra arcivescovile di Siracusa il Can. Guarino, uno dei più zelanti consiglieri, e quasi contemporaneamente insigniti di cariche ecclesiastiche molti di quei sacerdoti che tanto affaticavano per i poveri, mi trovai ad un tratto quasi solo a sostenere con la mia miseria tutto il peso e la responsabilità dell’Opera.

La colletta venne meno in gran parte; si cessarono le distribuzioni a domicilio, furono sciolte le case degli orfanelli e mantenute solo le orfane interne pel il grave pericolo delle loro perdizioni.

Governo e Municipio, nonostante le loro promesse, rimasero nella più completa indifferenza. La colletta diminuiva sempre e parve un miracolo che per ben undici anni si poté miseramente provvedere al sostentamento di quelle infelicissime creature. E poiché vedevo mancarmi ogni soccorso, mi convincevo io stesso di dovere affidare l’Opera a qualche pio Istituto tra quelli approvati dalla Chiesa, ed impedire che la mia indegnità continuasse ad esserle di ostacolo.

Io, con l’aiuto di Dio, avevo potuto fondare in S. Giuseppe Jato, a 19 miglia da Palermo (dove la mia famiglia possiede dei piccoli fondi), una Casa di Misericordia, affidata alle Figlie della Carità. Quest’occasione, avendomi dato il destro di potere conoscere ed apprezzare le grandi opere di S. Vincenzo de’ Paoli, pensai tosto, nelle gravi angustie in cui mi trovavo, di rivolgermi alle Figlie della Carità e le supplicai ardentemente che si fossero impegnati a sostenermi; ma la loro istituzione non permetteva di mendicare, come doveva farsi per sorreggere l’Opera che io loro volevo affidare. Mi indirizzarono all’Abate Lepailleur per avere le Piccole Suore dei Poveri, ma per questa via non fu possibile nemmeno di avere un aiuto, perché dette Suore sebbene dedicate alla stessa vita, pure si limitano semplicemente ad aver cura dei poveri vecchi e non si versano né per le orfane né per i  soccorsi a domicilio e nemmeno in altre opere di carità.

Il giorno in cui ricevetti quest’altro rifiuto fui proprio al colmo del mio dolore e, quando finito il lavoro era l’ora del mio riposo, nell’amarezza amarissima del cuor mio, mi  accinsi a scrivere una lettera al mio Direttore per informarlo dell’esito avuto con le Piccole Suore dei Poveri e chiedere il permesso di chiamare le Stimmatine ed affidare loro le orfanelle abbandonando assolutamente l’idea del volere conservare ancora l’Associazione del Boccone del Povero, che io vedevo per mia indegnità assolutamente distrutta.

Mentre ero al termine quasi della lettera, un sentimento di malessere, unito al sonno, senza avvedermene, mi fece stendere le affrante membra sul letto che mi era d’accanto, e nella quiete di quel riposo mi sembrava di essere in una campagna, fra lo spaccato di una montagna, che si ergeva sulla mia sinistra, lasciando di fronte una sinuosità acuminata, che lasciava vedere l’azzurro del cielo sull’alto della vetta divisa in due alpestri promontori, uno dei quali stendeva la sua base in più basse colline sulla mia destra, verso le quali girando il mio sguardo, io vedevo un grande antro ove erano riunite le mie povere orfanelle colle buone Suore che ne hanno avuto sempre la cura, dietro alle quali distinguevo un’altra donna a me ignota, ed anche essa in abito povero ed in atto di allattare un bambino.

Queste cose si manifestavano tutte ad un tempo e fu estrema la sorpresa mia quando in quella donna ebbi a riconoscere la gran Madre di Dio! Un alto grido ed un rapido slancio, che mi fece cadere genuflesso ai piedi della Madre Santissima, fecero tutti avvertiti di quello che accadeva, ma io non avevo più altra intelligenza e capacità fuori di quella di baciare e ribaciare i piedi della Santissima Vergine, innanzi alla quale io, prostrato, mi stava con quel conforto che un bambino, smarrito e spaventato, può trovare quando in seno alla madre si trova al sicuro fuori d’ogni pericolo.

Sarei rimasto là tutta la vita mia se la tenera Madre rilevandomi dai suoi SS. Piedi, non mi avesse avvicinato al suo petto, dove un momento avanti io avevo veduto il Bambino, ed in quel mentre, che io non so ripensare senza emozione, mi confortava a sperare: che l’Opera era accetta al Signore e che opportunamente sarebbe stata prosperata al gran fine per cui Dio l’aveva fatto nascere.

Indi, con un sentimento che alludeva ai miei sconforti, e alle mie indegnità “È al tenero Figlio mio! È a Lui che tu devi tutto”, mi diceva guardando dietro le mie spalle, sguardo che mi tolse dalla posizione in cui io ero, poiché quasi nello stesso istante, per un sentimento spontaneo di reverenza, di gratitudine e di timore, mi volsi a ricercare Colui a cui tutto io doveva, e vidi il Bambino già fanciulletto all’età di quatto o cinque anni, con gli occhi rossi come li ha fatto un gran pianto e composto ad una serietà, che mi impose di prostrarmi e chiedere perdono delle mie ingratitudini ed implorare pietà per quelle povere creature che mi erano affidate, domandando ancora l’aiuto della sua provvidenza per poterle sfamare.

Allora mi alzai a pigliare i frammenti del pane, che formavano tutta la nostra provvista, ma nel ritornare io non vedevo che la sola Madre di Dio, dinanzi alla quale prostrato, domandai che avesse benedetto quei tozzettini per potere bastare a sfamare tutte le orfanelle. E la Madre Santissima con benigno aspetto accoglieva la mia preghiera e benediceva quei pochi frammenti non nel modo solito, ma passandovi sopra la mano a modo di croce: ed io lieto mi alzava per dividerli alle orfanelle, quando volgendo lo sguardo allo spaccato della montagna, vedevo due pentoloni di ferro in mezzo ad un gran fuoco, e l’acqua per l’ebollizione saltava insieme alla pasta che vi era dentro.

Volevo cercare un canovaccio per non bruciarmi nel metter giù le pentole dal fuoco, ma una fede viva, che chi mi aveva fatto trovare là le pentole con la pasta, avrebbe custodito le mie mani, mi fece slanciare per pigliarle.

Quando poi mi svegliai, restai sorpreso di trovarmi vestito sul letto, e non sapevo come, ma non pensavo nulla di quello che avevo sognato, né il mio cuore era più in quelle angustie che mi avevano spinto a scrivere la lettera che stava sul tavolo.

Mi sbrigai per la celebrazione della S. Messa, e poi nel ringraziamento, con mia nuova sorpresa, mi si svelò tutto alla mente e ne ebbi tanta consolazione, che tutt’ora mi si ripete al solo pensarlo.

Rapportai tutto l’accaduto ad un mio amico sacerdote, a cui, nell’assenza del mio Direttore sono solito rivolgermi per qualche consiglio, e mi proibì di completare e spedire la lettera cominciata, esortandomi invece a non lasciare mezzo intentato per procurare l’istituzione delle Suore e dei Frati, che dovevano sostenere quest’Opera secondo come io l’avevo desiderata, e disse di non ricorrere alle Stimmatine se non quando, messo in opera ogni mezzo, si vedesse chiaramente che il Signore non voleva questa nuova istituzione. Continuai a lavorar pacificamente nello stento in cui ero durato per tanti anni, ma nessun umano conforto vedevo spuntare per l’iniziativa della desiderata Istituzione. Era un miracolo continuato della Provvidenza quello di sfamarsi tanti poveri con la sparuta colletta che veniva ogni giorno, tanto che io spesso non avevo l’animo di mangiare la mia zuppa, se pria non era certo che tutti almeno della casa si fossero saziati; del resto l’abbondono cresceva ogni giorno.

Se non che uno dei Sacerdoti che per l’innanzi mi erano stati generosi della loro assistenza, visto il gran decadimento delle cose nostre, mi consigliava di affidare l’Istituto alle buone Figlie di S. Anna, le quali erano state chiamate nella vicina città di Termini per la cura di un collegio. Mi lasciai persuadere e feci ogni tentativo sino a cedere loro una porzione della nostra piccola casa e a recarmi a Napoli per supplicare la loro fondatrice, ma tuttavia non mi fu possibile riuscire allo scopo. Però non mi scoraggiavo fra tante difficoltà.  

Poiché sin da quando feci quel sogno ebbi sempre dinanzi gli occhi miei la Madre Santissima e per una relazione che io non sapevo capire, mi immaginava sempre di vederla in una mia campagna, che nella mia mente ho consacrato a sostenere il mantenimento del nostro noviziato, sperando che sotto i piedi della Madre Santissima, come alle Salette, scaturisse l’acqua, per poterne migliorare circa dieci salme a giardino, e così, nell’abbandono di tutti, trovare i mezzi di far fronte al bisognevole.

Fu allora che per maggior sicurezza dell’animo mio e a fine di conoscere meglio la volontà del Signore, mi recai a consultare una pia persona, che era stata favorita molto dal Signore e dalla Vergine Santissima. Dopo averle rapportato le cose tue, ella con grande umiltà m’incoraggiò a voler continuarti nell’opera incominciata, servendomi degli elementi che il Signore mi aveva dati senza cercare altre istituzioni che rei aiutassero. Quindi mi animò a vestirti le Suore, e a procurarti di riunire ed avviare la comunità in quel modo che il Signore mi avrebbe ispirato all’uopo, e fidare molto nell’aiuto di Dio e della Madre Santissima, perché le cose prosperassero per la sua gloria e la salute delle anime.

Intanto io stavo ad aspettare il ritorno del nostro Monsignore Arcivescovo, che trovai in Sacra Visita, per domandargli il permesso di vestire le prime Sorelle.

Venuto lui, gli rapportai tutto, ottenni il permesso di vestire le prime Sorelle, e la festa della SS. Trinità dell’anno 1880, ebbi la sorte di vederle già pronte all’opera con l’approvazione e benedizione dell’Ordinario.

Sarebbe mio desiderio pertanto recarmi costì e presentarmi al Santo Padre, però la mia povertà e la difficoltà di ottenute una privata udienza ne postergarono sempre il momento, ed in ultimo anche un grave incomodo, che tuttavia mi travaglia e mi invalida, e lo sviluppo che ha preso l’Opera, la quale ormai conta tre case in Palermo ed una in Agrigento, con un numero stragrande di Poveri. Ed altre case già preparate aspettano le Suore a Campobello di Mazara, a Favara, Casteltermini, Valguarnera Caropepe, ad Ogliastro, S. Giuseppe Jato e in tanti altri Comuni, che mi travagliano per la corrispondenza epistolare. Una miriade continua di faccende di contabilità, di segreteria, cura di anime etc. mi hanno reso anche impossibilitato a scrivere la presente per rendere la S. V. Rev.ma un altro me fuori di me stesso, e potere rapportare quello che crede opportuno al S. Padre, per ottenere, se Dio lo ispira favorevolmente, quanto nella separata postulazione io mi faccio animo di domandare.

La prevengo che io non ho l’animo di domandare al S. Padre l’elevazione ad Ordine religioso di questa pia Opera sia perché ancora troppo piccola e nascente, e perché vorrei, seguendo l’esempio di S. Vincenzo, lasciarla come semplice società che si impegna al servizio dei Poveri, esercitando tutte le opere di misericordia, lavorando e mendicando.

La S. V. Rev.ma mi aiuti con la sua valida protezione ed aggiunga se può, e si degni dirigermi in una faccenda così grave per me e per gli interessi dei Poveri di Gesù Cristo.

Lascio poi al caritatevole e generoso cuore del S. Padre la concessione speciale di qualche indulgenza appositamente accordata pei i soci, che veramente, con esattezza religiosa, contribuiscono con la privazione del boccone, secondo lo spirito dell’Istituzione.

Avrò la sorte di venire al bacio del S. Piede? Se il S. Padre mi accorderà tanta fortuna, bisogna che mi benedica specialmente, per avere la forza di mettermi in via nelle attuali sofferenze che mi reca la fistola che mi travaglia, anzi la supplico di volermela ottenere sempre questa benedizione, perché son costretto di mettermi al più presto in viaggio per le case che debbono aprirsi.

Tutta intera la Comunità a me unita implora una sua speciale benedizione e quella del Rev.mo P. Generale, non avendo mai lasciato la preghiera perché il Sommo Dio li conservi per moltissimi anni e li compensi degli immensi beni che ci hanno largiti, con la misura abbondante del Suo Cuore divino.

Così prostrati, ci presenti al trono del nostro Supremo Gerarca e ci ottenga quella benedizione che ci faccia tali quali esser dobbiamo per essere fedeli a Dio nello stato in cui si è degnato chiamarci.

Mi creda pieno di stima e gratitudine.